Crisi alimentare e carestie

Crisi alimentare e carestie

I prezzi mondiali del mais destinato all’alimentazione degli animali hanno raggiunto valori record dell’ultimo decennio ma su quotazioni elevate su colloca anche il grano dei quali l’Ucraina è un grande produttore ed esportatore. E’ quanto emerge dall’analisi della Coldiretti sull’impatto della decisione delle autorità dell’Ucraina di sospendere l’attività dei porti nelle città occupate dalla Russia, alla chiusura settimanale del Chicago Board of Trade, punto di riferimento mondiale del commercio delle produzioni agricole.

Una emergenza mondiale che riguarda direttamente l’Italia che è un Paese deficitario ed importa addirittura il 64% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti e il 53% del mais di cui ha bisogno per l’alimentazione del bestiame, secondo l’analisi della Coldiretti dalla quale si evidenzia peraltro che l’Ucraina è il nostro secondo fornitore di mais con una quota di poco superiore al 13% (770 mila tonnellate), ma garantisce anche il 3% dell’import nazionale di grano secondo lo studio Divulga.

L’Italia in particolare è costretta ad importare materie prime agricole a causa – precisa Coldiretti – dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che hanno dovuto ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati.

Era evidente fin dall’inizio che l’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin mirava a destabilizzare l’Europa: il flusso dei migranti avrebbe dovuto spaccare i paesi dell’est (notoriamente restii all’accoglienza); mentre le decisioni sulle sanzioni avrebbero dovuto minare i rapporti tra quelli dell’ovest (fortemente dipendenti dal gas russo). Per ora questo proposito del Cremlino sembra aver fallito. Ma di effetto indiretto questa guerra ha dimostrato di averne anche un altro: la destabilizzazione del Medio Oriente e dell’Africa del nord. Il perché lo si capisce bene dalle parole di Roman Leshchenko, ministro dell’Agricoltura ucraino, che di recente in un’audizione al Parlamento Europeo ha ribadito come l’Ucraina sia «il paniere dell’Europa» e si sia dimostrata il «garante della sicurezza alimentare nel mondo». Tutto vero, considerato che l’Ucraina produce enormi quantità di frumento e semi di girasole: materie prime utili non soltanto all’alimentazione umana, ma anche a quella degli animali negli allevamenti. Kiev, peraltro, nell’ultimo periodo è stata capace di esportare l’80% dei propri prodotti e lo ha fatto soprattutto attraverso i propri porti, proprio quelli che l’esercito russo nelle scorse settimane ha preso di mira nel sud del Paese, con l’obiettivo di privare l’Ucraina del mare.

Sempre Leshchenko, in un’altra parte del suo discorso, ha detto anche che il suo paese dovrebbe «dare a oltre 400 milioni di persone nel mondo generi alimentari», e che «adesso queste persone si trovano sul baratro della fame, ed è esattamente quello che vuole la Russia». Non sappiamo con certezza se davvero tra gli obiettivi del Cremlino ci fosse sin dall’inizio anche affamare l’Africa del nord e il Medio Oriente. Che fosse o no premeditato, però, questo è proprio quello che sta accadendo.

I paesi emergenti sono precisamente quelli maggiormente dipendenti dalle importazioni di generi alimentari dall’Ucraina e dalla Russia. L’Egitto, per fare un esempio a noi vicinissimo, dipende dai due paesi per l’80% dei propri approvvigionamenti; la Somalia oltre il 90% e l’Eritrea addirittura per il 100%. Stando a una nota di Filiera Italia «sono 50 i Paesi in via di sviluppo dipendenti per oltre il 30% dalle importazioni di cereali di quest’area e 25 di questi lo sono per oltre il 50%». Se consideriamo che Russia e Ucraina, insieme, producono oltre un quarto del frumento mondiale si capisce perché, a poco più di un mese dall’inizio del conflitto, le esportazioni sono sostanzialmente bloccate. E, di conseguenza, le scorte disponibili stanno finendo.

CARGILL vuole nutrire il mondo

Migliorare la sicurezza alimentare, portare innovazioni nelle tecnologie alimentari e aumentare i profitti e i mezzi di sostentamento degli agricoltori.”

Questa è la dichiarazione dei fratelli Cargill, i pronipoti di William Wallace Cargill, fondatore dell’omonima multinazionale con sede in Minnesota, un impero agro-alimentare di dimensioni titaniche, che impiega più di 155.000 dipendenti in settanta paesi, compresa l’Italia, e un fatturato che supera i 100 miliardi di dollari.

Si tratta di un’azienda a conduzione familiare, in cui la famiglia allargata, classificata come l’undicesima più ricca del mondo, detiene circa il 90% della proprietà.

Nel novembre 2015 insieme al WWF Cargill è stata uno degli organizzatori di Food Chain Reaction, la simulazione di una crisi alimentare che avrebbe interessato l’intero pianeta a partire dal 2020 fino al 2030. Si è trattato di un “gioco”, come se ne conducono molti tra i grandi centri decisionali internazionali, volto a testare le strategie e le azioni messe in campo dai partecipanti di fronte al verificarsi di uno scenario catastrofico, fatto di aumento dei prezzi alimentari del 400%, crisi dei rifugiati, instabilità governative e disastri climatici.

Il 2022 si preannuncia un anno scintillante per Cargill, con profitti eccezionali, che dovrebbero superare addirittura il precedente record registrato nel 2021, un aumento del 63%, “il più grande balzo dei suoi 157 anni di storia”.

Risultati straordinari, ma non imprevisti per l’amministratore delegato della multinazionale, che aveva già dichiarato di aspettarsi che i prezzi dei generi alimentari rimanessero elevati per tutto il 2022. D’altronde il colosso americano dell’agroalimentare – che ha diversificato il suo business spaziando dalla farmaceutica al settore energetico e a quello delle soluzioni finanziarie – è già preparato ad affrontare un’eventuale e scongiurabile collasso della catena di approvvigionamento, capace di metter in ginocchio la popolazione mondiale.

Fonte web

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