“Elvis il Film” di Baz Luhrmann, con Austin Butler, Tom Hanks
La storia di Elvis Presley dagli esordi alla fama fino alla prematura morte vista attraverso il complicato rapporto con il suo manager, il colonello Tom Parker.
La storia di Elvis Presley, dall’infanzia fino alla prematura fine, è raccontata dal suo storico manager, l’ambiguo colonnello Tom Parker, interpretato da un irriconoscibile Tom Hanks. Il film, presentato in anteprima mondiale alla scorsa edizione del Festival di Cannes, ripercorre la vita personale e la carriera dell’indimenticabile star attraverso il particolare rapporto tra Elvis e Parker, colui che portato al successo quel giovane e talentuoso cantante di Memphis che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica.
“Ci sono persone che vorrebbero farmi passare per il cattivo di questa storia”, ci spiega Parker, che sin dai primi minuti si presenta come un geniale imbonitore, quello che ha “creato” Elvis Presley e lo ha donato al mondo. Non senza un tornaconto personale ovviamente, perché nel giovane Elvis più che lo straordinario e puro talento Parker ci vede da subito una macchina per fare soldi, un burattino nelle sue mani, lui un “Mangiafuoco” esperto che per anni si è mostrato come un benefattore, un secondo padre per il cantante.
La vera essenza nel nuovo film di Baz Luhrmann sta tutta però in Elvis che nelle prime scene vediamo come un’entità misteriosa, spesso di spalle, quasi irraggiungibile, circondato da un alone di mistero mentre il pubblico e lo stesso Parker bramano di vederlo in viso, di sentire la sua voce. Poi finalmente il suo iconico volto, quello di Austin Butler, simile in maniera impressionante al vero Elvis, prende possesso del grande schermo. Voce, corpo e anima esplodono in un tripudio di sensualità e di ritmo espressi attraverso i suoi celebri movimenti, la sua danza proibita che sconvolge ed eccita il pubblico femminile e scandalizza i perbenisti.
Siamo nell’America degli anni ’50, quella della segregazione razziale, quella puritana, quella della pacata musica country, che non poteva tollerare i conturbanti ancheggiamenti di quel giovane cantante che suonava la musica “lasciva” degli afroamericani, il blues, che fece sua. In una delle scene più suggestive di tutto il film vediamo Elvis bambino attratto da questo ritmo, dalla sensualità che sprigiona. Segue quelle note fino ad una messa gospel e lì in un tendone gremito di afroamericani che cantano, ballano e pregano, viene colto da estasi, posseduto da quella musica, da quel “demone” che non lo abbandonerà più.
Attraverso un montaggio serrato (per usare un eufemismo), tra flashback, split screen, in un vortice di luci, canzoni, in un miscuglio di generi musicali, anche utilizzando brani contemporanei, Baz Luhrmann ci accompagna nell’esorbitante e frenetico mondo di Elvis, quello della ribalta, del successo mondiale. Non senza tornare alle sue umili origini a Memphis, la parte più vera della sua vita, quella con la sua famiglia, sottolineando il legame fortissimo con la madre e con quella musica che lo aveva formato, frequentando i locali degli afroamericani, in compagnia di B.B. King, assorbendo i loro ritmi, la loro cultura. Queste sono le influenze del re del rock, rimarcate anche per affrontare temi come il razzismo, mostrando come all’epoca quell’identità musicale e culturale degli afroamericani ingiustamente veniva portata avanti da un bianco, perché a loro non era concesso esibirsi in tantissimi posti a causa della segregazione. Così attraverso la parabola di Elvis vediamo anche la parabola dell’America, dagli anni ’50 ai ’70, la perdita dell’innocenza, la violenza, le contraddizioni di un paese che per certi aspetti non sembra poi così diverso da quello di oggi.
Ma come abbiamo visto in altri film su star indimenticabili, come nel recente Judy su l’attrice e cantante Judy Garland, il successo finisce per avere un carissimo prezzo. Nel “circo” messo in piedi da Parker che ci viene mostrato in maniera così esorbitante in puro stile Luhrmann, quasi a volerci far vivere in pieno per 2 e 40 una vita a esclusivo appannaggio di pochi “dei in terra”, Elvis viene trattato come una sorta di fenomeno da baraccone, diventa un uomo e un artista svuotato della sua essenza, di quella musica che aveva fatto nascere in lui una passione vitale, finendo per essere un intrattenitore per un pubblico famelico, una macchina macina soldi per lo squallido Parker. Affaticato, tossicodipendente, consumato da quello stesso fuoco che un tempo gli aveva dato la vita. Il bambino che voleva diventare un supereroe diviene così un uomo consumato dal successo che non è mai riuscito a “volare” veramente come il suo eroe preferito dei fumetti Marvel Boy.
Austin Butler è un perfetto Elvis, non ne fa una caricatura ma riesce a esprimerne tutta l’essenza, la purezza d’animo e la sensualità. Butler canta alla perfezione i brani del giovane Elvis, come Hound Dog, mentre per le scene dagli anni Sessanta in poi la sua voce è stata integrata con le registrazioni originali, da Can’t Help Falling In Love a Suspicious Mind, da If I can dream a Unchained Melody, quest’ultima nel finale in cui si vede il vero Elvis nella sua ultima, struggente esibizione del 1977. Nel cast anche Olivia DeJonge, Kodi Smit-McPhee, David Wenham e Dacre Montgomery.
Fonte: cinematographe.it