Tentativo di spionaggio: due basi militari nel mirino dei russi in Italia
Durante la pandemia del marzo 2020, i sospetti che i militari di Putin fossero in Italia anche per attività di spionaggio si fa sempre più forte: ecco il caso delle basi militari di Ghedi e Amendola.
I dubbi che la missione russa in Italia, ufficialmente per dare una mano durante la pandemia Covid-19, in realtà nascondesse attività di spionaggio non esclusivamente sanitario si fanno sempre più forti. L’ex premier Conte è finito nell’occhio del ciclone per le accuse che si fossero infiltrate spie russe dal momento che Putin inviò soltanto 28 medici, 4 infermieri e 72 militari per offrire assistenza sanitaria, una cosa un po’ strana e molto sbilanciata a favore di un altro tipo di operazione. Oggi i sospetti aumentano perché fonti della nostra intelligence sentite da Francesco Verderami sul Corriere della Sera, affermano che nel marzo 2020 c’è mancato poco che i russi ricavassero informazioni riservate sulle basi militari di Ghedi, a Brescia, e Amendola, Foggia.
Il tentato spionaggio russo
Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) è pronto a vederci chiaro e approfondire quanto accaduto “prima durante e dopo” gli accordi tra Giuseppe Conte e Vladimir Putin.
Il capo dei Cinque Stelle ha respinto al mittente tutte le accuse riguardanti azioni di spionaggio che si sarebbero consumate il giorno che i russi atterrarono a Pratica di Mare con truppe di difesa biologica, chimica e nucleare, e attività che si svolsero per lo più nelle stanze inaccessibili (agli italiani) del laboratorio mobile trasporato da Mosca e dotato strumentazioni satellitari per trasmettere poi le informazioni, la spy story riguarda altre basi militari italiane. “È per l’impegno della nostra sicurezza se quella missione ha avuto un esito non problematico. Dire che non ci sono stati problemi, infatti, non significa che non ce ne sarebbero potuti essere. E se non ce ne sono stati è perché c’è stato chi li ha evitati”, ha affermato all’Eco dell’Ossola Enrico Borghi, esponente del Copasir e membro della segreteria Pd.
l sospetto sulle basi di Brescia e Foggia
Ecco perché i russi avrebbero sfruttato l’occasione pandemica per un’operazione ibrida, come unire utile e dilettevole, aiuti e spionaggio: prendere le informazioni che ci servono sul virus, in gran segreto, grazie all’accordo tra Spallanzani e Istituto Gamaleya di Mosca e, vista la loro presenza in Italia, farsi un giro in alcune basi italiane come Ghedi e Amendola. Come ricorda il Corriere della Sera, il primo sospetto si ebbe quando i russi proposero di sanificare un’area del bresciano proprio nei pressi di Ghedi dove opera il 61esimo Stormo che, durante la Guerra Fredda, era considerato un obiettivo da distruggere perché sarebbero state custodite una dozzina di bombe nucleari nell’area riservata agli Stati Uniti. Episodio molto poco chiaro anche in Puglia, ad Amendola, dove i casi Covid erano pochissimi ma lì si trova il più importante aeroporto militare italiano dove opera il 32esimo stormo con macchinari altamente tecnologici. I russi chiesero di fare una visita anche da quelle parti con la scusa elementare che San Nicola di Bari è molto venerato anche dagli ortodossi: questo indizio è considerato “chiave” per le bugie di Putin.
Le insistenze dei russi
In ogni caso, le operazioni più importanti sono avvenute in Lombardia, dove Mosca sarebbe riuscita a elaborare il vaccino Sputnik ricavandolo dal Dna di un cittadino russo ammalatosi di Covid in Italia. Per evitare che la situazione sfuggisse di mano, il convoglio inviato da Putin fu “scortato” da militari italiani agli ordini del generale Luciano Portolano, il quale si scontrò duramente con il generale a capo della missione russa Sergej Kikot che pretendenva di muoversi liberamente su tutto il territorio italianoin base a un “accordo politico di altissimo livello”, Portolano non si fece intimidire. “Qui siamo in Italia e si fa come c…. dico io”. Grazie alla prontezza del comandande del Coi (Comando operativo interforze) i russi furono obbligati a mantenersi “ad almeno cinquanta chilometri dai siti sensibili”.
Articolo di Alessandro Ferro